William Webb Ellis, il rubgy l'ha inventato lui, se si può inventare ciò che in realtà è natura, istinto. Vita.
Ellis è anche il mio secondo nome e, anche se a rugby io non ci ho mai davvero giocato, lo sento mio più che mai.
Sono figlia di un rugbista, nipote di rugbisti, cugina di rugbisti, amica di rugbisti e, è capitato, anche fidanzata di un rubgista. A 1 anno dormivo nella carrozzina sul balcone di un rugby club, a 3 il mio grande amore era un pilone del Rho, a 8 placcavo le mie compagne di ginnastica ritmica; solo arrivata ai 13, con la pallavolo, ho scoperto che non tutti i palloni erano ovali; i primi ragazzi a cui mi sono interessata erano una giovanile di rugby e ora Sergio Parisse è l'uomo ideale.
Il rugby ti entra nelle vene, nello stomaco; non avrò mai la presunzione di capire o di voler spiegare cos'è davvero, perché purtroppo è una torta di cui non ho assaggiato una fetta; non ho mai giocato una partita vera. Però mi suona familiare l'echeggiare dei tacchetti sul cemento all'uscita dagli spogliatoi, l'odore della vaselina prima che una squadra entri in campo, il saluto all'avversario, il rispetto, la paura, il coraggio. la cattiveria, quella di cui mi parla sempre mio padre. Ho stampato nella memoria un inno nazionale, cantato da me e altri 20.000 italiani ( più 22 rugbisti italiani), alla prima partita delle 6 nazioni contro la Scozia ..... e mi ricordo di averlo cantato a squarciagola, seguendo il ritmo dell'unico, mastodontico cuore palpitante di uno stadio intero, mi ricordo il nodo alla gola, l'emozione. E poi l'haka di quelli tutti neri, potenti, con l'ala ai piedi, un'ala enorme; ho sentito tremare gli spalti e anche le ginocchia dell'Italia, che però non hanno ceduto.
Ad ogni partita, ad ogni meta, ad ogni mischia, mi sembra di percepire l'onore, l'orgoglio, la sofferenza. Ma parlo di una sofferenza vera, fisica e mentale, di una sofferenza che solo i rugbisti conoscono e che mi spiace non aver mai provato, perché è la vera spinta per rialzarsi, ogni volta che la vita ti placca e che vuole toglierti il possesso del pallone, che ti fa scivolare nel fango.
Il rugby ti insegna a scattare in piedi, anche dopo la caduta più rovinosa, con umiltà senza dimenticare che da lì a 2 secondi sarai di nuovo steso a terra e che dovrai scontare ogni presunzione tra sudore e sangue. Mi è sempre stato presentato il rugby come una parabola della vita, e in fondo è vero, il rugby non è quasi mai fuffa, quasi sempre realtà, anche se spesso un po' turpe, dolorosa e dura da affrontare.
Il rugby rapisce e non chiede mai riscatto, perchè non ha intenzione di lasciare liberi. Tutto ciò che si può fare è collaborare, mettere la propria vita nelle mani di questo rapitore insolito. Ma la vita cos'è, se non una palla ovale passata nelle mani di un compagno e portata oltre la linea di meta ?