Il ginocchio ovale

Racconto tratto da Pane e Gazzetta di Marco Pastonesi


Il ginocchio ovale

Non giocavo da dieci anni. Forse quindici. Voglio dire: non giocavo a rugby, neanche per finta. Avevo sempre — be’, sempre quelle poche volte — detto no grazie. Questione di ginocchia, non volendo anche di spalle e di caviglie e di mandibola e di tutto quello che già scricchiola in partenza, figurarsi all’arrivo. Ma stavolta non potevo dire no grazie. Infatti ho detto sì subito, sì al volo, sì dove e a che ora? Dove: al Beccaria. A che ora: alle 3 di pomeriggio.
Il Beccaria inteso come carcere minorile, casa di reclusione per under 18. Milano, fermata del metro Bisceglie.

Pioggia, freddo, a un niente dalla neve. Perfetto.
Fuori le vecchie facce dei miei giovani compagni: Giorgio, Aldo, Eros, Pat, Gorio, Riccia, Enzone che neanche si cambia perché ha un altro appuntamento, in tutto una quindicina. Carta d’identità, cassetto in cui riporre soldi e telefono, vetrata, corridoio. Seguo gli altri, che già sanno, che già conoscono, che già sono stati qui per giocare. Invece Luca era stato qui, molti anni fa, per tre o quattro giorni, dopo una mischia, che di per sé non è un reato, ma con due aggravanti: la prima, senza pallone ovale; la seconda, contro la polizia. Il terzo o quarto giorno, quando gli hanno detto che era giunto finalmente il momento di uscire, libero, Luca ha risposto di aspettare, che prima avrebbe finito di vedere una partita di calcio in tv: insieme agli altri si stava divertendo, non aveva intenzione di mollarla lì, così. E dove l’avrei trovata una compagnia così allegra, ha pensato. Ed è tornato a casa solo al novantunesimo.

Il campo. Da calcio. Un lato lungo e un lato corto chiusi dal muro: chiaro, non c’è via di fuga, neanche sportivamente parlando. L’altro lato lungo corre sotto i dormitori, le stanze, i saloni: visibili solo le finestre, sbarrate, invisibili i ragazzi, si sentono solo le voci. Entriamo nell’altro lato corto: palestra, spogliatoio, docce. E ci cambiamo. Quello è un momento magico. E’ lì che quindici ragazzi o uomini, disgraziati o sgraziati, diventano una squadra. Perché prima ti spogli: e, nudo, perdi titoli e didascalie. Poi perché ti rivesti: e, con la maglia, indossi dunque accetti anche un codice, un decalogo, una storia. Asr Milano: la prima squadra attualmente ultima in serie B, ma con un passato anche in A. Da sempre, aria di sinistra, Luca compreso. Asr significa Associazione sportiva rugby, Milano appunto, sezione Old, ribattezzati i Bislunghi. I Bislunghi si allenano saltuariamente ma regolarmente, partecipano a tornei e tournée, e fingono, anche riuscendoci, a giocare come se niente fosse, come se il tempo non facesse i suoi danni.

Da un paio di mesi l’Asr (con l’aiuto economico di Edison, Iveco e Iveco MilanoCarri) s’impegna a insegnare il rugby ai ragazzi del Beccaria. Una volta la settimana. Si passa soltanto indietro, però si può calciare anche in avanti. Il senso è conquistare il terreno. Il segreto è sostenere il compagno che ha il pallone. Prova, passa, così, dai, bravo. Si divertono. Si divertono tutti: i ragazzi del Beccaria e i Bislunghi. Perché il rugby è un gioco. Poi uno sport. Noi diciamo che è anche un’educazione. Ed è per questo che responsabili e assistenti accettano e aiutano il rugby. Bel modo di scaricare anche l’aggressività, incanalandola, disciplinandola, valorizzandola, dandole un senso. Si corre avanti, si passa indietro: è questo il senso.

I ragazzi del Beccaria vanno e vengono. C’è chi prova a giocare e poi non torna, chi prova e poi riprova, chi prova e poi viene trasferito, chi prova e poi viene rilasciato. Non dipende solo da loro: qui esistono gruppi, clan, bande. Se un capo dice no, perché giocare è una forma di sottomissione, di subordinazione, di accettazione, di collaborazione, allora non si gioca più. Stavolta, a presentarsi in tuta, sono in cinque. Pochi. Pazienza, fa niente.

Due squadre: quelli con la pettorina gialla, quelli senza. I primi quindici minuti a toccare: toccare vale come placcare. Poi ci si scalda, ci si agita, un po’ ci si dimentica (del calendario, delle ginocchia, delle conseguenze) e un po’ ci si ricorda (del gusto che ti garantisce un placcaggio eseguito, del brivido che ti regala un buco fatto). E alè. Trequarti d’ora di rugby. E quel minimo di riguardo che conservi faticosamente nei confronti dei ragazzi del Beccaria, si sfoga in impatti fisici decisi e decisivi sui vecchi compagni. Cominci "old" e finisci "very old". Totale: un’ora. Il più bel commento lo fa Daniel: "Un’ora? E’ volata". A me è sembrata un’eternità.

Il bello, per me, come al solito, viene dopo: la doccia, le voci sotto la doccia, il sapone che schizza e nessuno che ha il coraggio di chinarsi per raccoglierlo, la boccettina che miracolosamente moltiplica il suo contenuto di shampoo, l’acqua alta sul pavimento, il terzo tempo con panettone e tè bollente, una maglia degli Harlequins che Riccia regala al "man of the match", l’appuntamento fra una settimana.
Io non ci sarò. Ero riuscito a tenermi alla larga dagli autoscontri, finché ho cercato un’azione di forza. Pensa te che pirla che sono. Non mi riusciva venti o trent’anni fa, figurarsi adesso. Placcato da due o tre contemporaneamente, ho subito un effetto tipo frontale contro un Tir, c’è stato un attimo in cui ho visto il planetario gratis, poi mi è venuto un ginocchio ovale. Il ginocchione. Come previsto. Amen.

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